2010

Calamitati


Ad ogni sorpresa siamo preparati. Solo le cose quotidiane
ci cascano addosso come calamità naturali...

Stanislaw Lec


Il mondo ha conosciuto innumerevoli giorni del giudizio.
Ci sono le prove.
Bloccate per milioni di anni nell’ambra, o impresse nelle pietre.

I fossili sono istantanee dalla fine di un mondo.

Non c’è bisogno dei calendari Maya o delle quartine di Nostradamus, per sapere che accadrà di nuovo.

Tutto ciò che è già stato, un giorno sarà di nuovo.

Panta Rei, dicevano i greci: tutto scorre.

E a volte, ritorna.

Il pianeta Terra si evolve da 4 miliardi di anni; i suoi continenti navigano su un oceano di lava, che ruota attorno a un nucleo di metallo, una immensa calamita di piombo.

E questa è la sua natura: una incessante calamità naturale.

Siamo calamitati, in ogni senso.


Il nostro sguardo sul tempo che passa è prigioniero di bende e guinzagli, fin dai tempi in cui vivevamo nelle caverne.
Identifichiamo il mondo come qualcosa di indipendente da noi, qualcosa di immutabile e su cui non possiamo fare niente.

Non è una casa che condividiamo, della quale prendersi cura, ma uno scoglio ostile, che gira in un vuoto infinito.

Ci consola cercare molto lontano da noi le cause di tutte le nostre tribolazioni.

Siamo ciechi e sordi ai veleni che ogni giorno seminiamo in giro, alla spazzatura radioattiva che sprofondiamo negli oceani, alle foreste abbattute per fare spazio ai deserti, mentre siamo attratti irresistibilmente dalla possibilità di una catastrofe imminente.

Una sottile paura che riempie le sale cinematografiche.

Del resto si sa, un’influenza di polli in Asia copre il palinsesto televisivo meglio delle polveri sottili che respiriamo ogni mattina quando usciamo di casa.

Forse ci consola pensare ad una fine distruttiva e violenta, che saremo obbligati a subire senza poter muovere un dito, senza nemmeno doverci alzare dal divano.

Guardiamo il mondo con un cannocchiale tenuto al contrario.

Rimpiccioliamo le cose e le allontaniamo, che tra l’altro è esattamente ciò che fanno gli schermi televisivi e le pellicole su cui vengono stampati i film.

Ma quando capita davvero una catastrofe, ecco che ne è bella pronta un’altra all’orizzonte, che distoglie la nostra attenzione.

Forse, tutti gli esseri umani sono presbiti.

Ci vedono male da vicino e mettono a fuoco solo ciò che è distante.


Nel 2012, pare che il mondo finirà.
Ci sono innumerevoli profezie al riguardo, un’infinità di calcoli complessi, certificati addirittura dalla fine di uno dei più antichi calendari creati dall’uomo, quello Maya.

Il calendario Maya è una gigantesca macina dentata, sui cui ingranaggi scorrono altre due ruote, la più piccola interna a quella più grande.

Il cinema e le trasmissioni televisive para scientifiche ci vanno a nozze.

Peccato che raramente il destino arrivi annunciato da una raccomandata con ricevuta di ritorno.

Il destino è quel genere di cosa che ti capita di mercoledì pomeriggio, alle 5 meno un quarto, e non alla mezzanotte in punto tra sabato e domenica.

Nel passaggio al 2000, la nostra vita fu monopolizzata dal millenium bug, il verme informatico che avrebbe precipitato la nostra civiltà al paleolitico, perchè i computer non avrebbero più saputo indicare la data.

Poco importa che proprio quell’anno ci fu il record di bambini morti per malaria.

Sbagliamo apocalissi, ogni volta.

O forse siamo furbi, attratti solo da quelle alla moda.

Siamo prigionieri di una strana calamita, che ci attrae verso i problemi meno pressanti.


La nostra civiltà è un condominio costruito su un’area sismica.
Alcuni, come noi, vivono nelle suite all’ultimo piano, altri occupano alla meglio gli scantinati.

Perchè preoccuparsi di quando arriverà il terremonto che sbriciolerà le fondamenta, quando nelle riunioni condominiali - come i vertici alle Nazioni Unite o i Forum sul clima - litighiamo invece di decidere come regolare il sistema di riscaldamento che non funziona più tanto bene?

Anche l’Arca di Noè era un condominio di tre piani; gli animali immondi stavano nella stiva, quelli nobili nell’attico.

Passavano il loro tempo a lisciarsi le piume e la pelliccia, incuranti dell’oceano in tempesta che li circondava.

La nostra Arca galleggia su un mare di lava; perchè preoccuparsi di quando arriverà l’onda capace di travolgerci, se abbiamo già tante piccole falle nello scafo?


Non sappiamo cosa ci aspetta oltre la fine dei nostri giorni, ma la vita che conduciamo su questa terra non è guidata da entità metafisiche e non segue calendari di civiltà sepolte.
Non sono le quartine vergate con penna d’oca da un farmacista francese del 1500 a condannarci e nemmeno le catastrofi naturali a plasmarci.

Siamo noi.

Solo noi.

I duecentomila morti di Haiti, che hanno conosciuto una delle innumerevoli apocalissi di questo mondo in continuo mutamento, hanno incominciato ad esistere quando era ormai troppo tardi.

Del resto, siamo presbiti, no?

Non contavano niente quando morivano a rate sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno, con un salario di quindici euro al mese e i figli a rovistare nelle discariche in cerca della colazione.

Abbiamo cominciato a vedere la loro tragedia quando era ormai troppo tardi.

E litri su litri di inchiostro per piangerci sopra.

Il mondo ha un senso solo se lo costringiamo ad avercelo.

E un giorno, finirà; è sicuro.

Siamo calamitati, no?

Ma è un problema fasullo.

Non importa niente come si muore.

Importa come si vive.



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