2008

Un centimetro alla volta

‘Arbeit macht frei’
Rudolf Hoss, 1939 (più o meno)


A volte basta una domanda, anche stupida, e tutto il mondo cambia. E’ come se un velo sottilissimo che fino a quel momento ha offuscato e distorto la realtà scivolasse via.
Prendete una persona che vi hanno appena presentato: la prima cosa che gli chiedete è “E tu, che lavoro fai?”.
E lei lo chiede a voi.
In un mondo diverso, dovremmo essere curiosi di sapere se anche lui ama il gelato alla fragola o se per fare gli occhi dei pupazzi di neve usa vecchi bottoni o sassolini.
E invece, la cosa più importante è: “E tu, che lavoro fai?”.
Come se fossimo solo quello.

Basta un piccolo dubbio a volte, anche stupido, e tutto quanto finisce a testa in giù.
E se quello che esce dalle ciminiere delle fabbriche in cui lavoriamo, dalle macchine dei cantieri o dai camini degli uffici che occupiamo, non fosse anidride carbonica, ma fantasmi?
Riusciremo ad accorgercene?
Se la spazzatura che produciamo non fosse semplicemente il resto di ciò che non digeriamo e che non ci serve, ma vite spezzate che urlano, ce ne importerebbe qualche cosa?

I palloni che i nostri figli usano per giocare vengono cuciti da loro coetanei dall’altra parte del mondo.
Milioni di donne vengono umiliate e lasciate ai margini a causa dell’imperdonabile vizio di rimanere incinta e di dover poi perdere del tempo per crescerle, quelle creature.
Ragazzi costretti ad accettare impieghi senza futuro, da tre mesi alla volta, sono ridotti a vivere come equilibristi senza reti di protezione, sperando che non si alzi il vento.
Tutto è lecito, nel nome del lavoro.
E’ un altoforno che divora ogni cosa; vite, speranze, passioni: ha ucciso persino il nostro tempo libero.
Lo trascorriamo a riposarci abbastanza in attesa che ricominci il nostro turno.
La metà dei morti dell’industria petrolchimica non sono gli operai, ma i loro famigliari.
La metà dei morti dell’industria petrolchimica sono le mogli che stirano le tute da lavoro mentre i bambini fanno i compiti in cucina: i solventi chimici imprigionati nei tessuti evaporano nell’aria e li infettano a ogni respiro.
Mogli e bambini vengono consumati giorno per giorno, un centimetro di polmone dopo l’altro.
Tutto questo accade ora.
Anche oggi.
Un centimetro alla volta.

E tu?
Tu che lavoro fai?

Quando i nostri governanti si radunarono a Kyoto per fare il punto della situazione, scoprirono che così non si poteva andare avanti.
Il nostro sgangherato pianeta non poteva sostenere ne lo stile di vita della metà del mondo, ne gli sforzi dell’altra metà per raggiungere lo stesso livello.
Troppa anidride carbonica nell’atmosfera e immondizia ammucchiata sotto il suolo.
Fantasmi ovunque.
Così rilasciarono solenni promesse alla stampa e firmarono un sacco di fogli.
Poi si turarono il naso e se ne tornarono a casa in ordine sparso.
Decisero di non scegliere.
Se avessero conosciuto la teoria del salto di tre metri, forse qualcosa sarebbe cambiato.
E’ una faccenda piuttosto buffa.
Come tutte le cose buffe, potrebbe davvero servire a qualche cosa.
Secondo questa teoria, se tutta l’umanità si ritrovasse nello stesso luogo e ciascuno saltasse giù da una scala alta tre metri, si riuscirebbe a spostare l’asse della terra.
Saltando giù tutti insieme da tre metri di altezza, potremmo spostare il mondo di un centimetro esatto.
E romperci nello stesso momento tutte le caviglie, chiaramente.

Un centimetro non è molto.
E’ qualcosa di piccolo, e di fragile, eppure a volte è l’unica cosa che davvero conta.
A volte, è l’unico spazio pulito che rimane dentro di noi: l’unico luogo in cui possiamo essere veramente liberi.
In mezzo a tutta l’immondizia e l’ingiustizia a cui ci siamo abituati, sarebbe già qualche cosa.
Chissà, potremmo fare la raccolta differenziata delle idee.
Scegliere di non turarci il naso di fronte a certe schifezze, in attesa che passi il camion dell’Hera a portarsele via.
Sarebbe un po’ come metterci in cammino verso Kyoto con una scala sotto il braccio.
Per alcune cause potremmo decidere di lottare anche solo per guadagnare un centimetro.
E’ pur sempre una meta.

Un centimetro per i bambini incatenati ai telai.
Un centimetro per le donne umiliate e tenute ai margini.
Un centimetro per gli equilibristi senza futuro.
Un centimetro per le mogli che stirano mentre i figli fanno i compiti in cucina, ignari dell’aria impestata che respirano.
Un centimetro per i fantasmi che escono urlando dalle ciminiere.
Massacrare di fatica noi stessi chi ci sta intorno, per quei centimetri.
Combattere con le unghie e con i denti per conquistarli e proteggerli.
Spezzarsi le caviglie, se necessario.
Perché alla fine, quando li andremo a sommare, il totale farà la differenza tra la vittoria e la sconfitta, la differenza tra vivere e morire.
La vita in fondo è tutta lì.
In quei pochi centimetri d’aria pulita che abbiamo davanti alla faccia.

‘Arbeit macht frei’ è la frase che Rudolf Hoss fece scrivere sul cancello della fabbrica che dirigeva nella prima metà degli anni quaranta in un piccolo paese della Polonia sud orientale, Oswiecim.
Rudolf Hoss però era tedesco, e il paese lo chiamava Auschwitz.
‘Arbeit macht frei’.
Il lavoro rende liberi.
Era vero.
Chi non passava subito per i forni – come le donne, gli anziani e i bambini meno robusti – si guadagnava un’ unica libertà; quella di morire di fatica.

“E tu, che lavoro fai?”
Come può essere così importante?
A me piuttosto piace il gelato alla fragola.
E per i pupazzi di neve uso i bottoni, ovviamente.




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